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Le prospettive della crisi
di Mario Margiocco
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15 gennaio 2009
Quattro mesi fa falliva Lehman Brothers e finiva la Wall Street del 900. L'autodistruzione di quello che era stato, con Wall Street, il cuore della finanza americana e mondiale appariva evidente anche a chi fino ad allora aveva guardato altrove. Nessuno l'aveva previsto davvero, in tutta la sua enormità. Ma qualcuno aveva lanciato allarmi circostanziati. Quattro mesi dopo la fase uno può dirsi superata. A livello mondiale i valori di Borsa sono stati più o meno dimezzati, cosa del resto accaduta anche con lo scoppio della bolla dot com otto anni fa. Le Banche centrali e le Tesorerie pubbliche sono intervenute, spesso generosamente. Il sistema ha frenato paurosamentre ma non si è fuso. E alla fine, dopo quattro mesi, un rispettato economista come Brad de Long dell'Università della California, a Berkeley, fa i seguenti conti.
Un anno e mezzo fa il mondo aveva 80mila miliardi di dollari di titoli finanziari commerciabili. Oggi può contare su 60 mila, cioè 20 mila in menio e 5mila in meno del Pil mondiale. Il settore abitativo, con i mutui subprime e simili, negli Stati uniti e altrove, in Gran Bretagna soprattutto, ha provocato o provocherà circa 2mila miliardi di perdite. Quattromila vengono o verranno da altri default già provocati o che la recessione renderà inevitabili. Le Banche centrali e le Tesorerie hanno immesso effettivamente a tuttoggi - escluse garanzie e altri finanziamenti a fronte di collaterale di buona qualità - circa 3mila miliardi di dollari. L'effetto deleverage, la perdita di valore di asset finanziari dovuta alla molto diminuita accettazione dell'indebitamento e al rifiuto di titoli che al momento nessuno sa quanto valgono - parte notevole dei derivati - ammonta quindi, se De Long ha fatto bene i suoi conti, a circa 17mila miliardi. E' con questa "evaporazione" di asset finanziari, che solo fra alcuni anni e a bocce ferme potrà essere in parte - quanto, oggi non si sa - iscritta come vera perdita, che occorre ora confrontarsi.
L'impegno della Federal Reserve e del Tesoro americano è massiccio e senza confronti in Europa anche perché il settore pubblico è negli Stati Uniti assai più ristretto, pari a poco più del 30% del Pil contro il quasi 50% in Europa. E poiché tocca al settore pubblico sostituirsi a un credito privato al momento molto difficile, è logico che Washington sia più attiva, avendo il sistema meno stabilizzatori automatici. Negli Stati Uniti le cifre messe in campo sono enormi, e già superiori a quanto speso da Washington per il finanziamento dell'intera seconda guerra mondiale, Allora 3600 miliardi, in dollari di oggi, adesso contro la crisi e la recessione finora 4600 miliardi su un totale di circa 8 mila pronti a venire impiegati (si veda Il Sole 24 Ore del 6 gennaio, pagina 11). Tutto questo senza contare il piano di stimolo che adesso il nuovo governo Obama si appresta a lanciare. E che sarà , alla fine, non lontano dai mille miliardi.
A questo punto si possono scegliere due strade e la prudenza consiglia di praticarle entrambe.
La prima è indicata da un cartello che dice "intervento pubblico" ed è quella battuta finora, negli Stati Uniti soprattutto ma anche in Europa. E in Cina.
La seconda è segnata da un cartello che si chiede: " quanto intervento pubblico?". Pone cioè il problema non solo della necessità, ma dei limiti. Neppure lo Stato più ricco ha risorse illimitate.
Quindi, guardando oltre la crisi, quanta spesa pubblica e fino a che punto è sostenibile? Fermiamoci al caso americano, il maggiore e più emblematico.
Il piano di stimolo del nuovo Governo, l'American recovery and reinvestment plan, prevede una cifra del 5% del Pil (che è pari a circa 14mila miliardi di dollari), in due anni, cioè circa 750 miliardi. Ma poiché il settore privato dovrà risparmiare attorno al 6% del Pil per parecchi anni per uscire dai debiti, questo 6% dovrà essere recuperato dalla spesa pubblica che già è in deficit del 4% del Pil, e si arriva a un 10% di deficit. Sarà lo Stato infatti ad accollrsi la spesa in deficit che i privati non possono più fare. Secondo Martin Wolf del Financial Times sono livelli sostenibili solo per qualche anno, e solo se gran parte della spesa in deficit va in investimenti produttivi. Poi, i conti saltano. Già adesso, e senza il piano Obama, il deficit 2009 sarà di 1200 miliardi , secondo il Congressional budget Office, il triplo del 2008, a causa degli interventi anti-crisi. Se si aggiunge lo stimolo Obama , si arriva a circa 1600. Se si pensa che quando George Bush arrivò al potere l'intero bilancio federale era di 1700 miliardi, si vede come il deficit 2009 arriverà a sfiorare l'intera spesa 2000. Uno sforzo necessario, ma che non può durare a lungo. E che rischia di essere immane, perché Washington dovrà per qualche tempo sostituirsi a quella che è stata una forza trainante dell'economia anche internazionale: il consumatore americano. Le potenzialità degli Stati Uniti restano enormi, di ricchezza materiale e umana. Ma se il debito continua a correre, pubblico questa volta e non più privato, il risultato alla fine non cambia.
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